venerdì 15 maggio 2020

IL FLOP DELLA SCUOLA A DISTANZA


Stiamo uscendo dal Lockdown dovuto alla pandemia da Coronavirus ed è tempo di bilanci soprattutto per la scuola, che si è trovata, di colpo, catapultata in uno scenario surreale, costretta a chiudere gli istituti e reinventarsi da remoto.
Quindi non si è potuto andare a scuola fisicamente, ma si doveva proseguire la formazione e portare avanti la didattica, quasi fosse un imperativo slegato dal suo senso originario, cioè formare gli uomini e le donne di domani non solo alla competenza ma anche alla relazione. Scuola a distanza, quindi. Ma nello specifico di cosa si tratta?

Si è partiti volenterosi, anche se ancora tramortiti dagli eventi. Direttive ministeriali unitarie non ci sono state, quindi ognuno ha interpretato come voleva: non i singoli istituti ma ogni docente ha inteso la cosa a seconda della propria forma mentis.  Infatti ci sono stati insegnanti zelanti che hanno cercato di adattarsi, cercando di trovare strategie utili, anche a rischio di eccedere, tanto da pretendere che gli alunni rimanessero davanti ad uno schermo fissi per ore. Altri invece hanno creduto che la scuola a distanza fosse solo prendere il programma rimasto, spacchettarlo e rimandarlo, in forma di schede, ai genitori che dovevano improvvisamente trasformarsi in maestri qualificati e pronti all’azione.
Sono emerse molte criticità da questo tempo sperimentale e i dubbi che le famiglie si sono poste sono stati molti. Se pure un docente coscienzioso si fosse attivato in videolezioni, chi ci dice che le famiglie potessero rispondere con la tecnologia giusta, il tempo adeguato e le competenze per poterlo fare? E invece una maestra che mandava solo schede, cosa poteva pretendere da quei genitori con un grado d’istruzione basso e che magari non sapevano spiegare quella matematica evoluta? Allora il rischio è che chi parte da una condizione familiare di svantaggio venga lasciato al suo destino di ignoranza?

Pur senza fare retorica che parla di tempi andati migliori di quelli attuali, molti genitori si chiedono che fine abbiano fatto quei bei libri di una volta su cui si studiava a scuola: il sussidiario al cui interno c’erano tutte le nozioni di cui si aveva bisogno. I bambini sono pieni di schede sparse che disorganizzano il sapere e non lo rendono unitario e facilmente fruibile. A maggior ragione, oggi che si lavora a distanza, bisognerebbe ritornare al libro ed evitare ai genitori un grande sforzo organizzativo oltreché un notevole dispendio economico legato alle fotocopie.
Tra le tanti criticità emerse, c’è anche quella del recupero del materiale scolastico. Infatti quando la scuola ha chiuso, si pensava ad un tempo contenuto per la ripresa. Chi aveva lasciato in classe tutti i libri, come è consuetudine per i bambini della primaria in tempo pieno, doveva pazientare.  Ma anche qui, chi è stato più organizzato o più furbo, ha subito trovato il modo di recuperare il materiale con insegnanti volenterosi, che in totale sicurezza, consegnavano ai genitori il dovuto. Altre scuole invece si sono barricate non permettendo più l’accesso. Dopo due mesi di lotte genitoriali si è arrivati alla conclusione che il materiale è stato consegnato a domicilio, con l’utilizzo della Protezione Civile. I genitori, increduli, si sono chiesti se c’era bisogno di scomodare la Protezione Civile. Non era più semplice delegare qualcuno, che con guanti, mascherina e disinfettanti consegnasse a turno ai genitori il materiale? D'altronde non siamo nella fase 2?

In Italia ci pregiavamo ancora di poter avere una scuola pubblica seria e rigorosa, che formasse adeguatamente le nuove leve, nonostante le paghe decisamente basse dei docenti italiani. Ma in un momento in cui il tempo è bloccato dalla pandemia e dalla conseguente crisi economica, la speranza nel futuro è la conditio sine qua non per la ripartenza. Quindi investire nel futuro dei figli può essere il motore della ripresa psicologica e motivazionale di un’intera comunità che metta l’istruzione al centro. Ma la scuola di oggi si è fatta cogliere impreparata a gestire un’emergenza certo impensabile, ma reale. 

Alcuni paesi europei si stanno organizzando per riaprire la scuola in presenza, noi non siamo pronti. Dopo due mesi di sperimentazioni, ancora non si sono prese delle misure che contengano l’emergenza scolastica. Certo nella scala dei bisogni primari c’è prima la sopravvivenza (quindi l’emergenza sanitaria) e poi quella economica, dovuta e necessaria, da prendere in considerazione. Ma subito dopo non sarebbe doveroso metterci la scuola? Prima di trattare temi seppur importanti come lo sport, le seconde case, le vacanze che non si possono fare e via dicendo.
Oggi si parla di scuola solo come parcheggio per bambini che devono trovare una collocazione fisica nel momento del rientro al lavoro dei genitori. Ma i genitori, sempre più stanchi e perplessi, si chiedono che fine faccia la qualità scolastica; se si considerano le ripercussioni psicologiche che questi bambini avranno, nel vivere una scuola confusa e senza certezze; se le carenze didattiche e metodologiche di oggi rimarranno come segni indelebili di cui non potersi disfare.

Tutte queste criticità hanno evidenziato un bisogno urgente di direttive precise e universali per tutto il territorio nazionale come simbolo di una ripresa comunitaria che deve credere nel futuro e ripartire dalla scuola.

venerdì 20 marzo 2020

PICCOLO MANUALE DI SOPRAVVIVENZA PER GENITORI AI TEMPI DEL CORONAVIRUS


Come spiegarlo ai bambini e come affrontare la chiusura delle scuole


Essere genitori nel 2020 non è facile di per sé, tanto che quei pochi, eroici o folli che dir si voglia, che fanno ancora figli, si devono barcamenare con ritmi frenetici tra carriera e gestione familiare. Ma il lavoro diventa sempre più incerto, creando a catena instabilità organizzativa e affettiva all’interno delle famiglie.
Siamo ai tempi della “Società Liquida” come direbbe Bauman e quindi tutto evolve così rapidamente da creare confusione, soprattutto in giovani menti in attesa di conoscere il mondo. Il compito educativo quindi acquista una complessità sempre crescente e deve stare al passo con i tempi: la tecnologia diventa spesso la panacea di tutti i mali, come strumento e risoluzione di problemi sociali, in cui la chiusura relazionale aumenta anziché risolvere il problema.
In tutto questo si innesca il CORONAVIRUS a mettere ancor più alla prova genitori esausti e a corto di soluzioni.
Le scuole chiudono in tutta Italia e i genitori si trovano a dover gestire un’emergenza che non è solo di natura sanitaria, ma logistica: dove metto i miei figli?
E giù con telelavoro, homeworking e smartworking, che dir si voglia: quindi a casa con i pargoli. Ma come impiegare il tempo? Quali attività svolgere? Come riuscire a lavorare in casa nella confusione dei bambini? E soprattutto come far loro capire l’importanza della cosa senza spaventarli?


COME PARLARE AI BAMBINI DEL CORONAVIRUS

Siamo bombardati dai media che divulgano informazioni allarmanti su questo Virus che si diffonde rapidamente e che uccide le persone. La vita di tutti i giorni viene sconvolta e le abitudini cambiano. Addirittura chiude la scuola, che è il segnale tangibile di un cambiamento nella routine quotidiana di un bambino.
Ricordiamoci che i bambini sono piccoli ma osservano e comprendono, quindi urge una spiegazione che sia chiara e vera. Le informazioni devono essere filtrate in base all’età, in modo che possano essere comprensibili e fruibili, senza un’inutile esposizione a immagini e notizie non adatte al loro livello di comprensione. 
Sono i genitori e non la tv o la rete, che devono parlare e spiegare ai figli cosa sta succedendo. Essere bambini vuol dire dipendere quasi totalmente dai genitori: è una condizione particolare che nel corso della vita non si ripeterà più. Quindi bisogna essere consapevoli che i figli vivono gli stati emotivi dei loro genitori e filtrano il mondo attraverso loro, diventando estremamente permeabili alle loro ansie e paure. Allo stesso tempo la presenza dei genitori è un elemento rassicurante che codifica il mondo e lo spiega nel suo dipanarsi.

Entriamo nello specifico di cosa fare, con alcuni consigli:

1.       I bambini vivono del loro mondo di fantasia, per questo bisogna utilizzarla per le spiegazioni più difficili. La prima reazione che gli adulti hanno quando i bambini hanno paura del mostro, è dire che non esiste e che devono stare tranquilli. Questo non conforta il bambino perché vive nel suo mondo fantastico in cui il lupo o mostro che dir si voglia, esiste realmente come la sua paura. Quindi bisogna entrare nel loro mondo e sconfiggere il mostro, non negarne l’esistenza.
Allo stesso modo dobbiamo spiegare quello che sta accadendo, usando un linguaggio comprensibile.
Quindi il virus può essere paragonato ad un mostro che dissemina suoi mostriciattoli in giro. Medici, ricercatori, scienziati, infermieri e forze dell’ordine stanno cercando di sconfiggerlo. Loro sono i buoni e i buoni vincono sempre. Noi siamo dalla parte dei buoni e dobbiamo aiutare i nostri supereroi non diffondendo il virus e rispettando le oramai note norme igieniche.
Ponendo l’enfasi sul processo, ossia cosa si sta facendo per sconfiggere il virus, si ridimensiona la paura delle sue conseguenze.
2.       Non mentire ai bambini, ma dire sempre la verità, in modo tale che la possano capire. Soprattutto in situazioni di emergenza, quando le certezze vacillano, è importante per i bambini avere informazioni che siano coerenti con ciò che accade, altrimenti si sentiranno presi in giro, o peggio traditi da chi avrebbe dovuto rassicurarli.
E’ pensiero comune che sia meglio non raccontare la verità ai bambini perché sono piccoli e vanno protetti. Ma, come dico sempre, i bambini sono piccoli ma non sciocchi, quindi si muovono nel mondo dei grandi e osservano ciò che avviene.
Se non hanno una spiegazione dall’adulto, si costruiscono una verità che può essere ancora più spaventosa del reale, soprattutto perché non viene mediata dall’adulto, che dovrebbe avere una funzione rassicurante.
3.       Non farsi cogliere dai bambini spaventati e allarmati. Un bambino per sentirsi sicuro ha bisogno di stare con un adulto in grado di trasmettere affetto e padronanza. Se i bambini notano incongruenze, si chiedono se fanno bene a credere all’adulto, se possono fidarsi di lui.
La fiducia è indispensabile per dare sicurezza.
La coerenza è fondamentale per i bambini, dona stabilità ed equilibrio. Messaggi incongruenti generano confusione e quindi paura.
Come dicevamo, i bambini vivono di stati emotivi degli adulti, quindi bisogna mostrarsi capaci di poter fronteggiare la situazione contingente.
Non nascondere le preoccupazioni, perché vorrebbe dire negare un’emozione che comunque arriva al bambino come segnale discordante, ma affrontarle con cognizione di causa.
I bambini vanno educati all’emotività sana, che deve poter circolare in famiglia, senza creare allarmismi.
Un esempio: ci può essere la mamma preoccupata che non può lavorare perché l’epidemia ha bloccato il suo settore, ma quella mamma farà anche capire al suo bambino che troverà una soluzione. Solo così i bambini si fidano dei grandi e imparano a leggere le emozioni che emergono nel quotidiano.
4.       Scegliere 1 o 2 momenti al giorno in cui aggiornarsi, in modo tale da fornire spiegazioni comprensibili e rassicuranti, mettendo in evidenza gli aspetti positivi.
La sovraesposizione a stimoli allarmanti non facilita un’elaborazione sana.
L’informazione è continua e va filtrata oltreché spiegata.
Se decidiamo di mantenere la tv accesa con il Tg durante il pranzo, dobbiamo anche essere disposti a dialogare con i nostri figli e interpretare ciò che viene visto.
Il dialogo è sempre lo strumento principale che un genitore deve mantenere con il figlio, Coronavirus o no, non dimentichiamocelo.
5.       Utilizzare in positivo ciò che avviene, facendo leva sul tempo regalato per stare insieme, in modo tale che i bambini ne colgano i benefici più che il disagio.
Certo un virus che può essere letale non ha niente di positivo, ma le misure messe in atto per arginarlo, potrebbero esserlo.
Orientarsi quindi a creare un clima ludico, in cui i bambini si sentano coinvolti in una emergenza che diventa divertente e, in quanto tale, li rasserena.
Ogni bambino vive del contatto con i genitori, che sono il loro mondo: non baratterebbero mai il tempo con loro con altro, quindi avere a disposizione un tempo aggiuntivo, non può che renderli felici. Partiamo da questo e organizziamo il tempo.
6.       Evitare un eccesso di rassicurazioni, che invece che placare le paure potrebbero amplificarle. Quindi ridimensionare la cosa con comunicazioni asciutte e limitate, quel tanto che basta per dire ai più piccoli come sarà la loro vita: non andranno a scuola, staranno in casa, potranno fare dei giochi, fare un po’ di compiti, leggere ed eventualmente incontrare in casa altri bambini.
Insomma, comunicazioni pratiche che aiutano i bambini a placare la paura con gesti concreti che richiamano alla normalità.
7.       Infine sdrammatizzare un po’ per allentare la tensione, magari con i figli più grandi, commentare insieme i tanti meme che circolano sulla rete che possono essere molto simpatici, ma alcune volte anche fuorvianti o addirittura fakenews. Quindi sdrammatizzare, ma anche controllare l’informazione che arriva ai ragazzi attraverso i social, non sempre veritiera. La regola del dialogo vale per i piccoli, ma anche per i grandi. Avere la possibilità di accedere alla loro gestione dei social è estremamente importante perché consente di poter affrontare l’argomento nel momento in cui ci siamo informazioni errate o addirittura dannose.
Concludo con un meme che mi ha fatto particolarmente ridere, dato l’argomento che stiamo trattando: “Scommettiamo che se continuano a tenere chiuse le scuole, il gruppo WhatsApp delle mamme trova il vaccino?”

COME AFFRONTARE IL TEMPO INSIEME

I bambini vivono il restare in casa come un’esperienza ludica di vacanza, ma cosa si fa se di vacanza non si tratta?
Infatti le direttive dicono che gli studenti di ogni ordine e grado continueranno la didattica a casa, con un programma di compiti che insegnanti e professori invieranno agli studenti attraverso vari canali telematici.
La scuola impone ritmi e abitudini consolidate, che danno regolarità e permettono di ottimizzare i tempi. Il primo errore da non fare infatti è non strutturare il tempo, come se fosse vacanza.
La vacanza ha caratteristiche ben precise, orientate allo svago e al tempo libero, venendo meno la routine legata agli impegni sia scolastici che lavorativi.  Nel nostro caso viene meno la routine scolastica e lavorativa, ma non gli impegni legati ad essa. Quindi si dovrebbe continuare a lavorare e studiare, pur stando a casa.
Detta così sembra cosa facile, ma chi ha dei figli sa che mettere in pratica queste buone intenzioni non è poi così semplice.
Lo so che il primo pensiero che alla maggior parte dei genitori balena alla mente è: “Mi faccio aiutare dalla tecnologia e li piazzo davanti a smartphone e tablet, così sono in silenzio e posso mettermi a lavorare”.
Purtroppo questo è l’errore peggiore che potremmo fare, perché renderli innocui per dedicarsi al lavoro, non risolve il problema, ma probabilmente ne crea uno ancora più grosso da gestire. O meglio, sicuramente risolve il problema contingente, cioè avere la tranquillità per lavorare, ma aliena fortemente i bambini, creando comportamenti problematici su vari livelli.
A questo punto è doverosa una digressione, dato che molti sicuramente pensano a questa opzione come ad una soluzione valida.
La tecnologia aiuta, ma ha i suoi limiti. E poi, quello che spesso non si dice è che la tecnologia è una questione per grandi e che i bambini possono iniziare a utilizzarla solo ad una certa età, per gradi, sotto la supervisione degli adulti e nei tempi giusti.
Oramai si sa che una sovraesposizione porta ad una chiusura relazionale. Ma purtroppo non è solo quello il problema: una precoce esposizione alla rete produce ritardi nello sviluppo psicomotorio, non tolleranza delle frustrazioni, difficoltà di attenzione, conseguenti problemi comportamentali e spesso addiction o dipendenza che dir si voglia.
Nella pratica clinica ho visto troppi casi di bambini che maturavano ritardi nello sviluppo e disturbi comportamentali. Come quei bambini che non sviluppavano il linguaggio perché a pochi mesi di vita venivano messi davanti al telefonino. Giustamente il loro mondo relazionale, iniziava e finiva con quello strumento totalizzante che escludeva tutto il resto. Non avevano bisogno di sviluppare il linguaggio: con la mamma avevano un rapporto a priori, anche se basato su una comunicazione primitiva - comunque inadeguata all’età. Verso i pari non mostravano interesse, perché la loro vita di relazione si basava sulla visioni di video di vari tipi. E così le tappe evolutive non venivano rispettate, lasciando il bambino completamente indietro.
Di solito è la scuola che poi segnala una problematica nel momento in cui il bambino non accetta le regole sociali, abituato a gestire tutto da solo, in un parossismo di onnipotenza, in cui con un click può tutto.
Ma ciò diviene un abbaglio troppo grande, da cui il bambino non sa avvedersi da solo. Ha bisogno della guida esperta dei genitori che lo aiutino ad orientarsi.
Ho visto bambini drogati di video e videogiochi, i cui interessi venivano talmente ristretti, da non desiderare altro.
E lo so che il pensiero che i genitori farebbero a questo punto sarebbe: “Ok, ma mio figlio mica lo utilizza così tanto da arrivare a quei livelli?”.
Partiamo dal presupposto che il concetto di tanto e poco può essere relativo, ma anche quel poco può danneggiare i bambini.
I bambini devono imparare analogicamente la vita prima di passare a quella digitale: quindi imparare a parlare, interagire con gli adulti e poi con i pari, giocare, tollerare le frustrazioni, lavorare su progressive autonomie, acquisire la letto scrittura e poi apprendimenti sempre più complessi con la scuola. Solo dopo andrebbero introdotti strumenti digitali sotto la guida adulta.
Certo che oggi, il Coronavirus ci costringe a casa, quindi la tecnologia ci aiuta, anzi è il solo mezzo che ci connette e relaziona. 
Quindi utilizziamo bene il cellulare, sempre sotto controllo dei genitori e per le videochiamate a nonni, amici, parenti, per giocare insieme pur nella lontananza fisica. Utlizziamolo come mezzo per connettere vite reali e non come rimedio-baby sitter.
Relegarli alla compagnia dell’amico tablet, vuol dire esporli ad un rischio di crescita malsana, anche se ci si dice che è temporaneo ed è solo per gestire l’emergenza, si deve sapere che innescherà comunque un meccanismo di ricerca che cambierà la prospettiva delle cose.
Utilizzo un paragone forte, ma non penso che sia sbagliato: come se facessimo provare dell’eroina ad un adulto, che proverebbe un piacere talmente intenso quanto alterato, da continuare a ricercare quella fonte di piacere.
Ok, spero di avervi terrorizzato abbastanza da escludere questa opzione.
Quindi dopo che abbiamo visto tutto ciò che non va fatto, ora vediamo cosa fare.

Consigli pratici su cosa fare per gestire questa emergenza nel miglior modo possibile:

1.       In primis, come antefatto, definiamo il tempo che c’è a disposizione: sicuramente ce ne è un surplus da passare insieme. Invece che subirlo possiamo utilizzarlo per viverlo come un dono per fare quello che non si riesce mai a fare nel quotidiano.
Le caratteristiche che questo tempo deve avere sono di natura giocosa e improntate alla condivisione. Si devono condividere gli spazi più del dovuto, quindi bisogna trovare insieme nuove strategie e modi di fare. I bambini vanno coinvolti nell’organizzazione affinché l’emergenza diventi un’avventura all’interno dello spazio domestico che apre orizzonti di scoperte insolite, da affrontare tutti insieme.
2.       Passare poi a strutturare subito una nuova routine.  Sappiamo che la regola tranquillizza perché aiuta a organizzare il tempo dei nostri bambini e li toglie dalla confusione e dall’ansia di gestire ciò che per loro è troppo complesso.
La nuova routine che dobbiamo creare deve essere basata su questa situazione di emergenza, ma che non deve far sentire in emergenza.
Quindi la prima regola è darsi un orario per svegliarsi e per andare a dormire la sera, dato che la giornata deve essere comunque produttiva. Ci deve essere un orario che definisce il tempo per il lavoro/studio, al cui termine si può pensare allo svago.
Avere tutta la giornata a disposizione non vuol dire passare un tempo confuso che non mette limiti. Anche la gestione dello spazio è importante. Non si ha la classe o l’ufficio, ma ci si può dividere nelle varie stanze, utilizzando le porte chiuse per delimitare spazi funzionali.
Ipotizzo una casa tipo, in cui mamma e papà utilizzano il salone o studio come luogo di lavoro e i bambini la loro camera.
Ma prima di dividersi nelle stanze, mamma o papà devono fare un po’ i maestri: verificare i compiti e suddividerli nei tempi giusti, dare eventuali spiegazioni e poi arrivare alle consegne.
Infine porte chiuse e zero distrazioni per concentrarsi sul da farsi.
Una tale procedura responsabilizza i più piccoli e li abitua al rispetto del proprio e altrui lavoro.
3.       Se non siete tra quelli che beneficiano del lavoro da casa e naturalmente avete nonni e familiari a disposizione, si può chiedere il loro aiutoInutile dire che si devono sottolineare le norme igieniche che permettono di tenere lontano il virus.
4.       Siccome non si può uscire e la primavera avanza, utilizziamo qualsiasi spazio all'aperto che sia privato e  non in comune con altri, come un balcone, un terrazzo, un giardino o un cortile condominiale in solitaria può anche andar bene.  I bambini hanno tanta energia e relegarli in casa, in spazi limitati, proprio ora che anche le attività extra sono sospese, è frustrante. Diventano nervosi e capricciosi perché hanno bisogno di muoversi liberamente, possibilmente in spazi aperti. Quei momenti all'aperto restituiranno una parvenza di normalità e ne beneficerà il loro umore. Anche perché con il crollo delle produzioni industriali e le macchine che non circolano, l’inquinamento è arrivato ai minimi storici. 
5.       Si è tutti a casa quindi si deve cucinare due volte al giorno, magari rimpiangendo le mense scolastiche che dimezzano gli sforzi culinari. A questo punto, dato che bisogna cucinare, perché non farlo con i bambini?
I bambini adorano manipolare e imbrattare oltreché imitare i genitori, che sono il loro modello per antonomasia. Quindi invitarli a cucinare per loro è il gioco più bello del mondo, soprattutto perché si fa con i genitori.
Certo, aspettiamoci qualche faccenda in più da fare per rimettere a posto e tempi un po’ più lunghi, ma ne varrà la pena.
6.       Leggere insieme è un altro passatempo oramai desueto, ma che andrebbe rispolverato anziché sostare ore davanti alla tv. La lettura apre la mente e regala stimoli intellettuali utili a grandi e piccini.
Si potrebbe leggere a turno per catturare l’attenzione e condividere.
7.       Giocare ad inventare favole.  Si possono prendere due o tre parole chiave su cui costruire storie. Si possono anche utilizzare tematiche legate all’emergenza che si sta vivendo per esplorare il mondo emotivo dei bambini e le loro paure a riguardo.
Infatti tramite l’utilizzo della fantasia e non parlando in prima persona, i bambini esterneranno i loro pensieri sulle parole stimolo che hanno ricevuto, strutturando storie che seguano il loro vissuto.
8.       Per i più creativi, si possono mettere su veri e propri laboratori d’arte. E anche quando mamma e papà non sono proprio portati per tutto ciò che è artistico, si può utilizzare la rete con video tutorial che spiegano come fare qualunque cosa.
In questo caso la tecnologia aiuta, anche perché è gestita dai grandi.
9.       Far scrivere i bambini, magari tenendo un diario di questi giorni così particolari. La scrittura è un’altra espressione per esplorare il mondo interiore dei bambini e per cogliere come rielaborano gli eventi quotidiani.
Naturalmente parliamo di bambini già scolarizzati, ma si può comunque utilizzare il diario per bambini che ancora non sanno leggere, adoperando i disegni che andranno a descrivere per immagini, le storie che vivono.
10.   Utilizzare le videochiamate per sentire più vicini amici e compagni di scuola.
Non è la stessa cosa, ma almeno potranno scambiarsi idee, notizie sui compiti e sentirsi più vicini.
11.   Arrivata la sera si può selezionare un Film adatto a tutta la famiglia, per concludere la giornata insieme e all’insegna della normalità.
12.   Inoltre anche lasciarli giocare da soli è un’opzione che non deve mancare. Infatti l’essere costretti a stare tutti insieme in casa per tempi lunghi, non vuol dire che si deve riempire per forza freneticamente il tempo con attività a caso. Lasciare un tempo libero che definisca anche i propri spazi separati, aiuta a superare meglio il momento.
13.   Per i figli più grandi, che fanno da soli e che sicuramente vedranno con estrema insofferenza lo stare rinchiusi in casa, va bene tutto quello che abbiamo detto per i più piccoli, seppur con delle dovute restrizioni, ma la vera fatica sarà staccarli dai social per fare qualche attività in famiglia.
Certo la vita in rete e social avrebbe ragion d’essere come succedaneo delle relazioni vere, proprio ora che siamo limitati negli incontri de visu, anche se purtroppo vive di una vita propria indipendentemente dalle emergenze.
Infatti Coronavirus o no, i giovani vivono la loro vita di relazione sempre mediata da devices di vario tipo, pur di evitare di esporsi in pieno.
Sicuramente bisogna vigilare sulla vita social di questi ragazzi, capendo anche che tipo di informazioni ottengono e spendere sempre più tempo per il dialogo diretto.
Con loro bisognerebbe rispolverare le carte e giochi di società, passatempi antichi, ma sempre accattivanti.

E la vita di relazione?

E’ indubbio che ne risente, anche perché, oltre all’astinenza di occasioni di incontro sociale, vengono meno abitudini affettive consolidate, come l’abbracciarsi e baciarsi o comunque scambiarsi gesti affettuosi di vario tipo.
C’è da chiedersi, in senso evolutivo, se questo virus non ci renderà sempre più asettici e distanti l’uno con l’altro da far cambiare ulteriormente le nostre abitudini relazionali e affettive.
Speriamo di no.

POSTFAZIONE

Consigli per questo periodo di emergenza, ma validi anche in una quotidianità più ampia, perché l’attenzione che i figli si meritano deve essere sempre molto alta.

Ringrazio le mie Anita e Irene. Mi hanno regalato due bellissimi disegni, che ho utilizzato per le copertine.

mercoledì 19 febbraio 2020

SCRITTURA CREATIVA CLINICA





Curarsi con la scrittura
 
La SCRITTURA CREATIVA CLINICA nasce dall'incontro personale e professionale tra Giusy Rosamondo e Damiano Laterza. Lei Psicologa Psicoterapeuta e lui Scrittore Giornalista. Da quasi 25 anni insieme e tanta esperienza professionale e di vita all'attivo.

I due contesti professionali si sono intrecciati creando qualcosa di sperimentale e innovativo, in cui le competenze di ognuno hanno dato libero sfogo alla riflessione e reinterpretazione di pratiche già consolidate. All'inizio un gioco affascinante e stimolante, poi un’esperienza clinica che diventa prodotto estetico.

Ma vediamo cos'è la SCRITTURA CREATIVA CLINICA.
In estrema sintesi potremmo descriverla come: SCRIVI LA STORIA DELLA TUA VITA E PUBBLICALA.
Fin qui, niente di così nuovo. Ma la novità consiste nel processo oltreché nel risultato.
Si utilizzerà la competenza di una psicoterapeuta che scaverà nei meandri della psiche per trovare nessi nuovi ad una storia che è sempre la stessa. Una ridefinizione ulteriore, in cui ci si riappacifica con i mostri del passato. Il tutto verrà inserito in un vero e proprio laboratorio di scrittura per dare alla propria storia una cornice stilistica e creativa che ne permetteranno la pubblicazione.
Quindi una psicoterapia che produce un risultato visibile e condivisibile e che dona prestigio alla propria vita, qualsiasi essa sia. Perché ogni storia porta dietro emozioni ed esperienze universali che trovano nella fruizione dell’altro un suo senso peculiare e relazionale.

Ma entriamo nello specifico per capire ancora meglio cos’è questa SCRITTURA CREATIVA CLINICA.
E’ un procedimento terapeutico che mira a ristrutturare l’identità del singolo (o del sistema di riferimento) attraverso la ricostruzione creativa della propria storia. Questo avviene secondo un percorso a fasi che prevede l’utilizzo degli strumenti di scrittura professionale e di una psicoterapia orientata in senso relazionale.

Il culmine di tale processo che definiremmo digitale (in quanto narrativo) è una rappresentazione analogica (simbolica) che crea un giusto continuum tra forme di espressione, verbale e non verbale. Quindi, siamo su due livelli di comunicazione – esplicito e implicito – che interagiscono per arrivare a una più piena consapevolezza di sé.
In poche parole il cliente, al termine dell’esperienza, potrà realizzare un prodotto estetico da condividere, la pubblicazione del libro, affinché il processo sveli un significato che non è solamente intrapsichico, ma anche e soprattutto relazionale.
Ovviamente, a seconda delle inclinazioni dei pazienti, si sceglierà di personalizzare un idoneo programma di intervento, cucendo su misura un intervento che miri a tirar fuori le risorse residue da reinvestire nella narrazione.
Una nuova narrazione del proprio vissuto ha lo scopo di dare senso laddove gli eventi si sono confusi nel ricordo e lasciano emozioni ambigue e dolorose. Fare chiarezza, ristrutturare vissuti, lavorare sullo strumento scrittura, serve a dare nuova definizione agli eventi. Una nuova vita, come nuovo è il romanzo che ne uscirà.
Attraverso laboratori esperienziali basati sempre sulla scrittura, il cliente si riapproprierà delle sue scelte di vita laddove si è sentito sovrastare dagli eventi, riuscirà a capire il valore della scelta che ha compiuto. Riuscirà a riconoscere legami intenzionali tra le esperienze vissute affinché la storia acquisti coerenza e continuità.

Il prodotto finale del percorso diventa simbolo e stimolo per una responsabilizzazione del vissuto del cliente e assume anche una funzione attivante rispetto a strategie nuove (alternative e afferenti al mondo delle arti) da poter riutilizzare nel proprio quotidiano.
Riaprire un copione già scritto per descrivere scenari possibili, in cui la parola FINE è diretta scelta del suo attore/autore e come tale ne può riscrivere il finale.



Per chi volesse approfondire l’argomento, vi consiglio di proseguire la lettura…


APPROFONDIMENTI TEORICI E BIBLIOGRAFICI
I recenti approcci biografici e narrativi mostrano come proprio la narrazione sia un elemento centrale nella vita dell'uomo. La narrazione individuale di storie genera l'organizzazione mentale di una biografia personale che, adeguatamente intrecciata con le storie di altre vite, contribuisce a donare un senso alle proprie esperienze ed alla propria esistenza. 
E’ letteratura condivisa che molti psicoterapeuti individuano nell’attività del narrarsi il fulcro del processo terapeutico. Per questi, l’uomo costruisce e ricostruisce i propri mondi narrandoli. Si può dire che essi abbiano scoperto l’importanza fondamentale che il narrare riveste nella continua ridefinizione di un’identità. La terapia viene così vista come un racconto, come un romanzo, come un’opera d’arte.
"L’intera attività terapeutica è in fondo questa sorta di esercizio immaginativo che recupera la tradizione orale del narrare storie: la terapia ridà storia alla vita". (J.Hillmann).
Polster e Hillman vedono la psicoterapia come un processo estetico - artistico. Il terapeuta deve usare gli stessi criteri selettivi e costruttivi che usa uno scrittore nel produrre una storia, allo scopo di aiutare il cliente a "ri-scrivere" la sua biografia. È in questo modo che all’interno del setting si produce una storia di cui terapeuta e cliente costituiscono i co-narratori. Tale prassi d’intervento è sostenuta dalla "scoperta" teorica di un modo specifico di funzionare della mente: il pensiero narrativo.
Una volta assunto che la narrazione può costituire un veicolo di cambiamento, è lecito notare come ci siano narrazioni (modi di rappresentarsi) più efficaci di altre; spesso non è sufficiente un semplice narrarsi per promuovere un cambiamento.
E’ per questo che l’approccio della scrittura creativa clinica vuole giungere ad un nuovo modo di integrare narrazione nella scrittura e psicoterapia. Ciò che si vuole intendere non è una narrazione fine a se stessa, ma la sua trasposizione. Una scrittura che diventi il “prodotto catartico” di una nuova elaborazione co-costruita che finisce per ridare senso a eventi sconnessi.
La scrittura ha il compito di responsabilizzare il cliente nel suo percorso. Nella rilettura si può sottolineare un momento emotivo che è stato presente, ma che è passato. Compito che in terapia è dello psicoterapeuta, quello di sottolineare snodi essenziali su ci lavorare. Invece, in un processo di questo tipo, il cliente viene attivato e responsabilizzato su una componente che potrebbe essere delegata al terapeuta.
Tale operazione non nasce comunque esclusivamente dall’esigenza di raccontarsi all’esterno, bensì dalla necessità di dare un senso a ciò che ci accade, di collegare i diversi eventi che costellano la propria esistenza lungo una dimensione sia temporale che spaziale. Nasce dal desiderio di raccontare a se stessi.
Oltre ad essere un essenziale strumento relazionale quindi, la narrazione rappresenta anche, e soprattutto, la via attraverso cui dare forma alla propria identità.
L’elaborazione dei fatti in storie o "racconti personali" è necessaria perché le persone diano un senso alla loro vita, perché acquistino un sentimento di coerenza e continuità. Creando dei legami intenzionali tra le esperienze vissute. Non si può prescindere dal concetto di intenzionalità in quanto, nel costruire storie, le persone determinano, oltre al significato che attribuiscono all’esperienza, anche quali aspetti dell’esperienza vissuta vengono selezionati per l’attribuzione del significato.
Narrare quindi, nella scrittura, una nuova storia, che dia significato a tutto quello che il cliente non è riuscito a capire nel susseguirsi di eventi della sua vita. Il terapeuta come co – narratore e allo stesso tempo fruitore. Entrambi come attori di una stessa rappresentazione. L’identificazione del terapeuta con la figura di un "cercatore di storie" sembra essere particolarmente calzante.
L’attività narrante quindi si completa e acquista senso solo se c’è un ascoltatore della narrazione. All’intenzionalità di chi racconta è sempre indispensabile che si leghi l’intenzionalità di chi sta ascoltando quel racconto.
All’interno della relazione psicoterapeutica si viene a creare tra cliente e terapeuta una polarità narratore-ascoltatore della narrazione. Tale polarità necessita dell’intenzionalità di entrambi per dar vita ad una costruzione narrativa che li coinvolga in quanto attori della relazione.
Per tutto il percorso della terapia cliente e terapeuta lavorano su realtà narrative che il cliente stesso crea rendendole racconti. Al terapeuta non interessa se quelle realtà siano "veramente" accadute oppure no; ciò che a lui interessa è la ricostruzione che il cliente fa di ciò che è avvenuto.
Compito del terapeuta è quello di entrare nel mondo ipotetico del "come se" del cliente, nelle sue diverse ricostruzioni ed ascoltare il nascere di connessioni con la sua storia.
"Ricostruire una storia diviene dunque un costruire insieme un tratto di vita, rimodellare parti di sé, delle rappresentazioni della propria identità e del proprio contesto sociale" (Venturini). Significa dare origine ad un racconto nuovo che, in quanto condiviso, crea un confronto all’interno del quale il terapeuta si muove verso un obiettivo: facilitare la persona nell’assunzione di responsabilità, aiutarla a rischiare possibilità diverse, ad aprire un copione di vita che si ripeteva sempre nello stesso modo. La aiuta a riaprire il finale, in un certo senso, in quanto gli offre la possibilità di togliere la parola fine. E’ proprio in questo senso che si può parlare di narrazione creativa.

LA SCRITTURA CREATIVA CLINICA
La scrittura creativa clinica si pone come obiettivo quindi di ricostruire le storie personali attraverso un processo estetico – artistico, basandosi su regole che hanno a che fare con la scrittura professionistica e la psicoterapia propriamente detta. La scrittura come veicolo di cambiamento. Come valore aggiunto della terapia. La scelta di proporre una metodologia nuova nasce dall’esigenza di raccontarsi: un processo interno cha apparentemente nasce da un’esigenza esterna, quale desiderio narcisistico che finisce col celare un bisogno profondo di conoscersi meglio.
Le tre parole chiave in questo processo diventano: coerenza, continuità e intenzionalità. Ciò che interessa agli operatori del processo è la realtà narrativa, affinchè si discosti da una semplice anamnesi. La via attraverso cui dare forma alla propria identità. Potremmo chiamarla una continuità innovativa, che ridà un senso alla propria cultura e ai propri valori ma ristrutturandoli secondo una propria visione personale, rielaborata nel setting terapeutico.
Si dà vita ad un intreccio tra realtà narrativa e realtà storica, per mezzo del “come se”. Più il racconto è coerente più elevata sarà la possibilità di confondere realtà narrativa e realtà storica con la realtà vissuta. Si entra nel mondo ipotetico del “come se” del cliente (il mondo emotivo) nelle sue diverse ricostruzioni ascoltandone il nascere di connessioni con la sua storia.
Tramite questa metodica si pensa anche allo svincolo psicoterapeutico. Infatti spesso il cliente in psicoterapia si sente vittima di un sistema che lo ha schiacciato. La scrittura serve a responsabilizzare, aiuta a rischiare (rischio e alternativa per rompere gli schemi rigidi) creando alternative possibili. Con la scrittura, attraverso qualcosa di simbolico, il cliente si può sperimentare in un rischio senza la paura di viverlo veramente. E’ qui che la creatività assume la sua funzione terapeutica. Per uscire fuori dagli schemi rigidi che rinchiudono, per meglio affrontare la quotidianità. Riaprire un copione di vita che si ripeteva sempre uguale. Nel togliere la parola fine si può cambiare il finale.
Compito della scrittura creativa clinica è proporre una consapevolezza di sé che porti un bagaglio di strumenti da utilizzare nei momenti di difficoltà che nella vita si possono affrontare (lo svincolo dalla terapia).
Vista in quest’ottica anche la patologia viene considerata come una particolare struttura narrativa e la terapia come un intervento su di essa.


STRUMENTI
  • Scrittura creativa. L’espressione “scrittura creativa”, da alcuni anni si è diffusa in Italia nel campo degli studi e delle pratiche letterarie e della comunicazione (De Mauro et al., 1996), e solo da poco tempo nel campo delle arti terapie grazie ai recenti avanzamenti della psicologia narrativa, della biblio-terapia e delle ricerche applicative di psicosemiotica. Il laboratorio di scrittura in quanto setting specifico di lavoro pratico e teorico, è l’elemento che prima di tutto caratterizza le applicazioni della scrittura creativa. La pratica della scrittura creativa si pone come momento privilegiato di apprendimento e conoscenza del sapere letterario e del proprio mondo esperienziale. Nel laboratorio la procedura trova una sua immediata applicazione attraverso esercitazioni guidate di scrittura, lettura e ri-scrittura di testi: le tecniche creative, il confronto, la ricerca dello stile, i diversi generi, predispongono un percorso formativo specifico (Gaudiano, 1994; Carver, 1997). Nel laboratorio di scrittura creativa l’attenzione dell’operatore è paradossalmente concentrata sugli aspetti qualitativi della scrittura come testo letterario, anche se il fine può essere terapeutico. Per questo è importante che in sede clinica, il consulente di scrittura creativa si affianchi al terapeuta, possedendo una specifica competenza letteraria, conoscendo e praticando abitualmente la testualità e la scrittura ed essendo in grado di valutare i contenuti e i processi che si affacciano nel testo (Cavarero, 1997). Il contenuto psicologico, la forma testuale, lo stile, non sono indipendenti. 
  • Psicoterapia integrata di matrice relazionale. La psicoterapia Sistemico-Relazionale vede il disagio psichico come il risultato di uno squilibrio che si crea nei sistemi in cui l’individuo vive le proprie relazioni significative (tipicamente la coppia, il nucleo familiare, la famiglia allargata).Tale squilibrio genera tensioni emotive che possono condurre al sintomo, visto in questa ottica come l’espressione di una disfunzione delle relazioni, metafora del conflitto psichico che si cela nell’individuo. Pertanto l’individuo attraverso il sintomo si fa portavoce di una istanza che coinvolge in realtà i vari componenti della famigliaGli strumenti utilizzati sono l’analisi della posizione della famiglia e dell’individuo rispetto al proprio ciclo vitale, ovvero l’individuazione dei cambiamenti nodali che i membri hanno affrontato o stanno affrontando lungo la storia familiare, l’analisi delle modalità comunicative fra i vari membri, l’acquisizione e la definizione dei vari ruoli e la delimitazione dei confini tra le generazioni, l’analisi del significato che il sintomo porta nel sistema famiglia.



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IL FLOP DELLA SCUOLA A DISTANZA

Stiamo uscendo dal Lockdown dovuto alla pandemia da Coronavirus ed è tempo di bilanci soprattutto per la scuola, che si è trovata, di co...